recensioni
sabato 28 gennaio 2006
dal BRESCIAOGGI inserto spettacoli - autore FABIO BIX
E la luna bussò alle porte del Jazz, lunedì scorso alla ex Virèr della Bornata 46. S’era tirata a lucido, con vestito «spaccato» fino all’inguine e luminoso al punto da accecare chi da vicino ne volesse scrutare i pensieri attraverso il viso lunatico. Un cameriere con gli occhiali da sole le disse che «senza invito non entraaaa nemmeno la lù-naaa»/ P.S.: l’invito è a forma di 8 (euro) e annette una consumazione. Lei spergiurava che l’invito gliel’avevano rubato scendendo, probabilmente mentre passava tra le nuvole, luogo ideale per tendere agguati, assicurava lei. «Se tu fossi meno bella ti crederei», le ha detto da dietro gli occhiali neri il cameriere che, forse, è stato ingannato da una donna molto bella. «Se è così me ne vado ad un party in piscina», ha cinguettato lei scodinzolando via. Peraltro la vanitosa era giunta di proposito con mezzora di ritardo e non c’era più un posto libero, per ascoltare il Quartet.
Così, il Quartet: Stefano Senni, che ci ha sedotto a pizzicotti e palpeggi di contrabbasso. Pensa che, durante l’ultimo bis - un pezzo da treno espresso - m’ero avvicinato, così, per meglio vedere i musici, e temevo per loro, sì, per indice e medio della sua mano destra, davvero temevo che gli si staccassero, da come ci strapazzava i tendini del contrabbasso in quel modo, il Senni.
Claudio Filippini aveva tra le mani un piano Fender Rhodes su cui le dita si muovevano con passi di lince sorniona, ma sempre in agguato e pronta a sferrare attacchi fulminei. Dal Fender uscivano note tonde, smerigliate come sfere, ma pulsanti come il cuore. E burlesche come il jazz sa essere a volte.
Alla batteria v’era il Maniscalco Emanuele, «pifferaio magicamente indemoniato» che già era venuto, liggiù. (Incatenato dall’essere al servizio altrui), era posseduto, stavolta, da una scimmia che gli si muoveva dentro e lo faceva saltare sul seggiolino e storcere il viso bimbesco con smorfie da vecchio schifato dalla vita, frangenti in cui d’impeto se la pigliava coi piatti e i tamburi, su loro s’accaniva, non fosse che ogni tanto, la scimmia, era a sua volta assalita da momenti d’inspiegabile dolcezza, e delicatezza, e allora era una questione di carezze, perlopiù. Ipnotico e/o stregante, il «principino» Emanuele.
Alla tromba era Fulvio Sigurtà, bresciano d’origine che da tempo vive a Londra e si sa, si sa, là... lassù piove a garganella, il grigio fumo di Londra domina spesso il cielo e gli animi, lassù... Non c’è da stupirsi, quindi, se molti dei brani da lui composti erano fradici di malinconia, e a tratti c’è poco mancato che qualcuno piangesse senza sapere il why? Non contento, il Sigurtà ha sfoderato un’altra tromba, incappucciata con copricapo di cuoio a nascondere una diavoleria elettronica da cui soffiava tocchi xilofonati o una continuità di vento magnetico che pareva giungere da lontano, invece era lì, lì, che ci avvolgeva.
È consuetudine, nel jazz, condire di applausi gli assoli dei musicisti, ma, in alcuni momenti, si aveva come una specie di timore a battere le mani, una sorta di paura d’infrangere il cristallo che s’era dipanata tra loro e noi. E chissà com’è finita, poi... La luna, dico... Chissà se poi è riuscita a infilarsi in un party in piscina o, come la Bertè a Sanremo, anche lì è stata rifiutata...
Fabio Bix
( foto: www.pierpaoloromano.it)
Così, il Quartet: Stefano Senni, che ci ha sedotto a pizzicotti e palpeggi di contrabbasso. Pensa che, durante l’ultimo bis - un pezzo da treno espresso - m’ero avvicinato, così, per meglio vedere i musici, e temevo per loro, sì, per indice e medio della sua mano destra, davvero temevo che gli si staccassero, da come ci strapazzava i tendini del contrabbasso in quel modo, il Senni.
Claudio Filippini aveva tra le mani un piano Fender Rhodes su cui le dita si muovevano con passi di lince sorniona, ma sempre in agguato e pronta a sferrare attacchi fulminei. Dal Fender uscivano note tonde, smerigliate come sfere, ma pulsanti come il cuore. E burlesche come il jazz sa essere a volte.
Alla batteria v’era il Maniscalco Emanuele, «pifferaio magicamente indemoniato» che già era venuto, liggiù. (Incatenato dall’essere al servizio altrui), era posseduto, stavolta, da una scimmia che gli si muoveva dentro e lo faceva saltare sul seggiolino e storcere il viso bimbesco con smorfie da vecchio schifato dalla vita, frangenti in cui d’impeto se la pigliava coi piatti e i tamburi, su loro s’accaniva, non fosse che ogni tanto, la scimmia, era a sua volta assalita da momenti d’inspiegabile dolcezza, e delicatezza, e allora era una questione di carezze, perlopiù. Ipnotico e/o stregante, il «principino» Emanuele.
Alla tromba era Fulvio Sigurtà, bresciano d’origine che da tempo vive a Londra e si sa, si sa, là... lassù piove a garganella, il grigio fumo di Londra domina spesso il cielo e gli animi, lassù... Non c’è da stupirsi, quindi, se molti dei brani da lui composti erano fradici di malinconia, e a tratti c’è poco mancato che qualcuno piangesse senza sapere il why? Non contento, il Sigurtà ha sfoderato un’altra tromba, incappucciata con copricapo di cuoio a nascondere una diavoleria elettronica da cui soffiava tocchi xilofonati o una continuità di vento magnetico che pareva giungere da lontano, invece era lì, lì, che ci avvolgeva.
È consuetudine, nel jazz, condire di applausi gli assoli dei musicisti, ma, in alcuni momenti, si aveva come una specie di timore a battere le mani, una sorta di paura d’infrangere il cristallo che s’era dipanata tra loro e noi. E chissà com’è finita, poi... La luna, dico... Chissà se poi è riuscita a infilarsi in un party in piscina o, come la Bertè a Sanremo, anche lì è stata rifiutata...
Fabio Bix
( foto: www.pierpaoloromano.it)
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