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recensioni

lunedì 9 luglio 2007

dal BRESCIAOGGI - inserto Spettacoli - di FABIO BIX

Chet Baker. Quattro figli. Tre mogli. Un balcone, ad Amsterdam, da cui malamente cascare/ modo stupido di morire, sì. O forse logico, normale, liberatorio, anche, dopo una vita da equilibrista squilibrato, giù, giù, giù... angelo senza più ali, che ha reiteratamente cercato gl’inferi sparandosi un lunghissimo fiume bianco nelle vene. Chet che muore a 58 anni/ “ma che da 20anni ne dimostrava 80”. Lui, Chet il bellissimo: quante donne lo avranno avuto? Baker il dannato, quante lo avranno poi odiato... Chet Baker, trombettista raffinato, inconfondibile, che per due anni di fila soffiò a Miles Davis, nella terra musicale di competenza dei neri, il jazz - forse l’unica di cui non sono stati espropriati... - “l’oscar” dei musicisti jazz.
Martedì, per la sezione Sconfini Letterari del Festival Jazz On The Road, è andato in scena “Chet: viaggio al termine della musica”.
Lucilla Giagnoni, istrionica attrice splendente in abito nero smanicato, gli occhi illuminano o gridano la voce delle donne scelte dal regista Emilio Sioli –  testi di Paolo Beniamini – per raccontare Chet Baker. Con lei, a evocare la figura del fantasma di Chet – che, appunto, viene fatto rivivere per “assenza” dalle donne che di lui parlano – c’è Fabrizio Bosso, trombettista che ha modalità diametralmente opposte a quelle di Chet, ma che può evocarne la figura di bello e dannato. Perché Bosso, in effetti, bello lo è. Dannato, forse, no. Ma suona dannatamente bene/ ben supportato da Luca Mannutza al piano; Luca Bulgarelli al contrabbasso; Lorenzo Tucci alla batteria. Peraltro il quartetto, quand’è libero dalle parole, spinge e swinga da strappa applausi.
“Mi chiamo Cherry. Sto girando un film su di te”, esordisce la prima donna lucilliana. All’inizio è tranquilla, quasi scavolata. Chet-Bosso sta seduto, sguardo nel niente, al di sopra o al di fuori della vita. E forse proprio l’impossibilità di averlo veramente, fino in fondo, genera la rabbia che esplode, sputata in faccia al fantasma “... affondare giù nel mare lento, o giù da un grattacielo/ ago dentro, luce bluastra/ l’inferno che arriva, l’inferno arrivato/ lo stomaco delle donne/ una bava di cane sul marciapiede/ nelle pieghe del tuo essere codardo...”. Chet-Bosso, lì, non reagisce/ Cherry placa il fiume di merda, rallenta, rimane la melma: “...odio i film con un lieto fine. Con te non ci può mai essere un lieto fine”.
La seconda donna è una bambolina, Lilian, e c’è Ruth, una delle mogli, e Melissa, e Cherry, la figlia, la madre, e.... il puzzle si compone. “... mi hai lasciata qui. Senza braccia. Senza gambe. Con tuo figlio...”, che vaga per gli Stati Uniti in autostop, con la tromba del padre, e ogni giorno scrive una lettera, ma poi non ha i soldi per spedirla.
E, Lucilla, ha grinta e ugola da vendere, e grida/ grida?!... si strappa la tiroide e molto di più!/ e Chet-Bosso risponde a suon di tromba/ a suon di?!... urli di tromba!/ e la madre aspetta, da giorni che si fanno anni, il passaggio del figlio, il suo piccolo Chesny, e quando Chet arriva con la bocca spaccata, lei gli chiede “come farai a suonare la tromba senza denti?”, “...imparerò a suonare...”/ perché sì, sì, gli spacciatori se ne fregano se la storia della musica ha bisogno di te, Chet. Le loro sporche storie vanno pagate, o coi soldi o coi denti. O coi diritti delle proprie canzoni, che Chet vendeva per comprarsi un altra dose di morte.
   Chet Baker. Quattro figli. Tre mogli. Un balcone. Uno stuolo di donne che l’hanno voluto. E Sister Heroine, l’unica “femmina” a cui è stato fedele fino alla fine. E a cui – ipocrita disconoscerlo – dobbiamo essere grati per la meraviglia vellutata che ha iniettato nelle magie atemporali che Chet Baker ci ha lasciato.
Fabio Bix

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