recensioni
dal BRESCIAOGGI inserto spettacoli - autore FABIO BIX
Non ce lo vedo proprio, Boris Vian, a riposare in pace nella propria tomba. Figurati! Come minimo si burlerà di quegli zombi dei suoi vicini. Organizzerà delle gran cagnare come fece a suo tempo nelle cave di Parigi. È stato lui a far incontrare gl’intellettuali (soprattutto gli esistenzialisti) con i Jazzisti. Come il filosofo Jean-Paul Sartre, che si sentì chiedere da Charlie Parker: «lei che strumento usa?». Era il ’49: club Saint-Germain, lo stesso anno in cui vi fece capolino quello stecco di liquirizia pura ch’era Miles Davis, il quale s’innamorò di Parigi e di Juliette Grèco, presentatagli da Vian. Per lei si trattenne nella capitale francese una decina di giorni in più. Non sapendo, però, una parola della lingua dell’altro/a, pensarono bene di passare quasi tutto il tempo a limonare, limitandosi a parlare con gli occhi e a consumarsi le mani a forza di stringersele facendo su e giù lungo la Senna.
Ho, io, già avuto modo di scrivere - in altra sede - che in un mondo senza il sole e le donne, anche la Fantasia si rifiuterebbe di viverci. Il sole stesso, mi sa, rinuncerebbe a sorgere ogni mattina, se fosse solo per scaldare e illuminare maschi imbronciati. E, anche, non so cosa ne penserebbe la Fantasia, ma pure in un mondo senza musica, io, mi rifiuterei di viverci.
Lunedì scorso era il 20 marzo. La primavera era nascosta dietro la tenda nera della notte, pronta a togliersi il cappotto e a mostrarci il floreale vestitino di seta. Quale modo migliore d’accoglierla se non con la voce, la gonna, il sorriso, i pensieri e le riflessioni di una donna, per giunta «fedele», che suona e canta il jazz (?)...
Già, lo scorso lunedì, all’Antica Birreria della Bornata 46, a traghettarci nella primavera c’era Laura Fedele, accompagnata dai suoi prodi scudieri: Stefano Dall’Ora, uomo e contrabbassista fine, e il giullaresco batterista Gio Rossi, che indossava una camicia color giallo-Titti e una cravatta rosso corrida con bricolage di disegni che non ho visto da vicino quindi non so cosa dirti, su quelli.
Laura Fedele, mentre suona il pianoforte, canta/o viceversa. E in fatto di pezzi nemmeno sceglie scappatoie, visto che s’è cimentata con brani di Tom Waits, Jeff Buckley e Nina Simone, tra gl’altri. Il trio, per certi versi, ha giocato. C’era alleg(o)ria/ aria di primavera? E intensità, anche. E si è battuto le mani a tempo, noi. E a me, una cosa che mi piace un sacco è guardare le mani dei pianisti specchiarsi nel frontalino nero verticale che sovrasta i tasti. Di Laura Fedele vedevo, riflessi, mano e avambraccio destri, fantasma di se stessi, sbucare dal nulla della nera manica disciolta nel nero legno laccato, mano e avambraccio in una danza di spigoli e vene in rilievo, come le danzatrici classiche alla sbarra col loro clone rispecchiato, ma qui si tratta di jazz, è un classico differente, qui, è più uno s-classico, più una questione «oscura», di dissolvenze, di oscillazioni, di Whisky e fumo pure se lì non ce n’era o quasi, si tratta del vivere una vita in Blues, come ci ha invitato a fare Laura nella traduzione d’un brano (mi pare) di Tom Waits, e di verità riflessa nella pigiatura delle dita su scacchiera di tasti e di corde vocali violacee e, dopo la mezzanotte, durante i bis, di, ecco, Buonanotte primavera, finalmente... Ma te lo togli quel cappotto o chi?!...
Fabio Bix