MENU

recensioni

domenica 13 novembre 2005

dal nostro inviato per Manerbio Jazz 2005

Che Scofield riesca, con la sua chitarra, a fare ciò che vuole lo si sapeva già, ma che riesca sempre a  suonare “la cosa giusta” non è lecito aspettarselo. Eppure succede sempre. Nel Jazz, in cui non c’è un modo giusto e un modo sbagliato di suonare bensì molte possibilità, varie sfaccettature, milioni di sonorità, alternative e differenti soluzioni armoniche che il musicista può percorrere, suonare la “cosa giusta” significa saper scegliere tra le diverse possibilità, sonorità e soluzioni armoniche col risultato di creare qualcosa di originale ed emozionale. John Scofield lo sa fare benissimo, le sue formazioni sono da anni ai massimi livelli del jazz mondiale e non solo per i nomi prestigiosi dei musicisti coinvolti, ma perché le sue band sono caratterizzate da un sound inconfondibile fatto di tradizione (soprattutto in certi temi dalle melodie canticchiabili), scomposizione metrica modernissima, utilizzo mai invadente di wha wha e effettistica (loop soprattutto) e soprattutto grande interplay con la ritmica che sembra avvicinarsi ad una ritmica da rock band, senza mai perdere la pulsione e la leggerezza tipiche del jazz.

Nel concerto tenutosi venerdì 4 novembre presso il teatro Politeama di Manerbio, tutto esaurito, all’interno della rassegna Manerbio Jazz, con direzione artistica di Umberto Fanni, la ritmica era composta da Bill Stewart alla batteria, ormai inseparabile drummer del chitarrista e dal grandissimo Steve Swallow al basso elettrico. Si potrebbe dire detti i nomi detto tutto, ma ogni volta in cui tre musicisti di questo calibro si mettono insieme sul palco, c’è solo da restare incollati ad ascoltare.

L’intesa tra Stewart e Swallow è impressionante, il ride si fonde con le note del basso precise quanto potenti, frutto dell’insolito uso del plettro che fa di Swallow la vera leggenda del basso elettrico nel jazz. La sicurezza nel condurre il groove di Stewart è rinomata, ma più passa il tempo dalle prime apparizione del batterista al fianco di grandi nomi più cresce la sua capacità di non essere mai sopra le righe, pur scomponendo in continuazione con un’inventiva inesauribile. Scofield è presente nel suono graffiante ma pieno, a tessere frasi complicate quanto orecchiabili, che spesso hanno la particolarità di finire quando meno te lo aspetti. E tutti e tre insieme giocano coi tempi, più spesso pari, dividendoli o accentandoli in modo inusuale, come nello splendido ¾.

Tra i vari pezzi eseguiti nella serata, l’introduzione è affidata a WEE, brano ormai classico del repertorio di Scofield, in cui mettere subito in chiaro che ce la si gioca sul piano del sound energico e scomposizioni del tempo. Si continua con il primo tema nuovo per il trio, un unico tema senza interventi in solo eccetto per il basso, che al solito modo di Swallow costruisce linee originalissime poco distanti dall’accompagnamento nella ritmica. IT’S A FREE è un pezzo con groove di batteria in stile quasi country perfetto per il fraseggio del chitarrista e per l’intenzione rockeggiante. In questo pezzo per la prima volta ci si accorge che la potenza di Stewart vince la forza di resistenza della batteria facendola avanzare ad ogni colpo, creando qualche inevitabile fastidio allo stesso batterista. Per notare la faccia poetica ed intima del trio dobbiamo attendere DON’T LET THE SUN LET YOU CRY di Ray Charles, tratto dall’ultimo disco di Scofield omaggio al bluesman georgiano, che, nelle parole del leader, è dedicato a tutti coloro “che non ci sono più”. La naturale postura di Swallow ricurvo sullo strumento e con le sopracciglia perennemente aggrottate è un elemento scenico notevole che a non conoscere il bassista sembra studiato. Ma in repertorio ci sarà, tra glia altri, spazio per un super fast di Swallow in cui assistiamo a vere peripezie tecniche e di ritmica mai stucchevoli perché riccamente creative, ballads molto liriche, fino ai temi in cui Scofield attacca wha wha e loop facendo capire che se suoni bene puoi permetterti di contaminare e ridefinire i canoni con cui si è malamente abituati a classificare i generi musicali.

Il trio balla ai ritmi creati, ondeggia divertito lo stesso Scofield fino a che, dopo un’ora e 40 minuti senza break, saluta affettuosamente il pubblico con la grande comunicatività e confidenza che ha sfoggiato tutta la sera. Il bis è d’obbligo per le continue richieste del pubblico: si va tutti a casa sulle note di un tema bluesy piuttosto convenzionale, l’unico della serata un po’ troppo “ti suono il pezzo che ti aspetti di sentire da un americano con la chitarra”, come quando nelle commedie made in Usa girate in Italia si vede sullo sfondo il mandolinista che canta “ ’O sole mio”. Ma del resto, a questo serve il bis….

Filippo Pardini

 


Articoli successivi


Articoli precedenti