MENU

recensioni

martedì 20 marzo 2007

di FABIO BIX

Ci fosse stato un applausometro, gli sarebbero scoppiate le orecchie/ hanno le orecchie gli applausometri? No-o?... Beh, sarebbe stato peggio per lui (per l’applausometro, dico), visto che gli applausissimi erano per Giovanni Allevi. O meglio, per la sua musica. O forse no... erano più, propriamente, per lui. Sia perché lui, il “don” Giovanni, lui è la sua musica. Sia perché già dal momento in cui è “birolato” sul palco, con quel suo modo un po’ così, con quella faccia un po’ così, con quel castagno di ricci in testa, il pubblico che ripienava il CTM di Rezzato s’è tarantellato le mani, sgolato l’ugole a un livello che il brutto anatroccolo darebbe il resto della vita, per un’ora e mezza di calore così.
Pubblico davvero eterogeneo, ma con una componente di tin-egèrs a mio avviso sorprendente. E mentre chiedevo a Charlie se “si scrive così tin-egèrs?”, Stefanòriz cacciava fuori gl’occhi per dirmi “guarda che qui, l’unico vero tin-egèrs, sono io!”, detto dall’orlo dei suoi 40anni/ quindi io non posso che credergli (a) cieca-mente...
L’Allevi, dal canto suo, parla come avesse giù la voce, e dice cose che fan sorridere, e l’impressione è che potrebbe dire qualsiasi cosa e andrebbe bene uguale: oramai il buon Giovanni è una Pop Star! E, a me pare, tale conquista è spesso risultante di talento sbroffato di populismo, anche, un po’. Ma beh... E  comunque: lui, fotograficamente parlando, sembra il negativo di Calimero: dove, infatti, il pulcino nero ha casco d’uovo bianco in testa, l’Allevi ha casco di ricci neri su viso bianco bianco. E, come il pulcino, il Giovanni ispira tenerezza, è paciosissimo, un peluche da coccolare. Ma è lì, lui, per suonare. Quindi.
Dal suo primo attacco di panico è scaturita la sua “Joy”-a, che ha riversato nel disco ultimo, suonato dalla prima all’ultima nota/ il pentagramma potrebbe testimoniarlo. Da una piena del Danubio, a Budapest, ne è straripata la tastiera di note, d’un’onda contigua, che di colpo rallenta, pausa lunga giusto un pesce e poi di nuovo una questione d’onda, nel “Vento d’Europa”. Quella che a me mi è piaciuta più di tutte tutte, è “L’orologio degli Dei”, in cui ci sono sprazzi dal meraviglioso mondo di Amelie, ma con molto molto altro, e di più, comprese equidistanti disarmonie spruzzate a colpi di bacchetta magica, manco fosse Harry Potter. Il pubblico riconosce lo sfiorato miracolo e ricambia con ovazioni-oni-oni. Allevi s’alza, ringrazia, spiega il nuovo pezzo e si rimette in postazione. Fa così con ogni brano. Per “Jazzmatic” si toglie pure la felpa blu, che di note c’è n’è tante e rapide, ma anche lì, pur pregevolmente, non una di meno né di più/ in contrapposizione col concetto di jazz. Da un volato “Viaggio in aereo”, poi, scrive e suona un pezzo che è una libellula ipnotica che vola sulla tastiera. “Water dance” è un bel modo di farla danzare, l’acqua: gli 88 tasti ringraziano per la rinfrescata. “Portami via” è, dice, il luogo incantato dove può essere veramente se stesso, e mi sa che in quel luogo lì c’è almeno un pianoforte... Mischia classica e rinascimentale a progressive emozionale, ogni tanto bacia la tastiera, suona, il pubblico si squarta le mani, lui s’alza, ringrazia, spiega e risuona, il pubblico si sq, s’alz, risd, finché, con quel suo modo un po’ così, con quella faccia un po’ così, con quel castagno di ricci in testa “birola” fuori, il pubblico si lincia le mani, lui rientra e dice “mi è parso di sentire bis”, e siccome “bis” vuol dir due volte, fa anche il tris, finché le luci s’accendono a congelare il meccanismo che avrebbe potuto reiterarsi all’infinito. O almeno finché si fosse staccato il primo dito/ se del pubblico o di Allevi non è dato sapere...

Articoli successivi


Articoli precedenti