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recensioni

giovedì 13 luglio 2006

Ritratti «narranti» nel cuore del cool jazz

E dopo «But Beautiful», sabato arriva John Abercrombie

«Sconfini di vita», a metà tra letteratura, teatro, performance musicale: nel contenitore di JazzOnTheRoad il trio di Giampaolo Ascolese, in ensemble con l’attore Alberto Rossatti e il Laboratorio Teatro Orvieto, hanno incantato lunedì sera piazza Tebaldo Brusato portando la dimensione tragica e stravagante del «cool jazz» nel cuore di un biografismo vibrante di immagini introspettive, curate da Massimo Achilli, e rese narranti dalla parola roca e di Rossatti.
Tre camei in sospeso sulla pozza del jazz freddo: Ben Webster, Thelonius Monk, Chet Baker. L’ispirazione di partenza è quel «But Beautiful» di Geoff Dyer: una serie di ritratti dei più famosi jazzisti di ogni epoca, dove lo zoom biografico vuole dare uno spaccato di introversione, una ricerca «aldilà» dell’esecuzione di jazz, sprofondando oltre, nella nevrosi da jazz.Vite normali, solitarie, riflessive, i cui connotati sono descritti e recitati dalla prosa, suggellati nel bianco e nero dei fermoimmagini e ricreati in forma di linguaggio musicale denso di intellettualismo dall’elegante sound sincopato di batteria, sax tenore, contrabbasso. Da un locale all’altro, tra treni e città, con al seguito «la custodia di un sax»: Ben Webster calca i viali metropolitani di un autunno precoce, raccatta un giornale svedese su una panchina satura di foglie morte, si ferma a leggere una notizia di cui non ha comprensione linguistica e rimane affascinato dal puro suono dei fonemi. Sul pavimento d’una camera di motel, la pozzanghera torbida d’una traccia di whisky sul fondo della bottiglia. Da una banchina sul porto, di ritorno dai club, tra notti putride e vicoli che sanno di fumo stantìo, al chiarore malato di lampioni smorti, sentinelle di un pigro Tamigi, Webster fa del sax e del suo celebre cappello la propria casa, chiuso in un’interiorità sconvolgente che segue il ritmo di un blues sinistro.
Thelonius Monk ama il jazz sghimbescio, quasi che la geometria degli accordi segua sempre una logica di errori da correggere in fase di performance, ci sia da ritoccare, ridefinire le regole dell’armonia, per evitare di fare, almeno del jazz, qualcosa di scontato, o troppo simile alla sua giornata. Avvolto in sè stesso dorme per buona parte del pomeriggio, o ripercorre la stessa Avenue di Manhattan in entrata e in uscita, gli sfugge il senso quotidiano delle cose, vive in «stanze» diverse da quelle del mondo, respira aria lenta, asfittica, estraniata, in cui lo scopo della vita affonda, e resta, unico traguardo possibile, la Morte. Fuori dall’ immobilità, solo il tremolìo distratto del suo sigaro.
Sparisce per giorni, Chet Baker, non dà notizie di sè, non lascia tracce, suona non per abbracciare le note, ma per lasciarle, per disperderle. Come un Narciso indifferente non vede nemmeno il suo riflesso sull’acqua, non ricorda nemmeno più se suona solo per sè, o per chi. Instabilità umane nella patina del silver screen, città liquefatte, il faro su una diga, una strada deserta, Lune annebbiate dal fumo, una «Nuova Iorca» senza progetto di Twin Towers, quando ancora l’Empire State era detto «the first skyscraper in the world»: ordinarie solitudini che, per quanto struggenti, si stemperano, nell’aprirsi e chiudersi dei semafori, nell’andirivieni della società che non sa, nel suono isolato di un sax che si scioglie nel dramma silente e si spegne nella sua stessa, complice indifferenza.
Prosegue la suggestione sabato sera alle 21.30, sempre in piazza Tebaldo Brusato, il trio di John Abercrombie (in caso di pioggia l’evento sarà spostato in San Barnaba).
Maria Elena Loda


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